Anthony Hopkins: la vita come miracolo e il racconto di un cammino interiore
Anthony Hopkins, 87 anni, due Oscar e una carriera che ha segnato il cinema mondiale, torna a parlare di sé con una sincerità disarmante. Non la gloria, non la fama, ma la semplice condizione dell’essere vivi sembra essere ciò che oggi lo commuove di più. "Ogni mattina mi sveglio e penso: sono ancora qui. È un miracolo", racconta mentre presenta la sua autobiografia, We Did OK, Kid, pubblicata in Italia da Longanesi con il titolo “È andata bene, ragazzino”.
In un’intervista rilasciata alla BBC dalla sua casa di Beverly Hills, Hopkins confessa di non considerare il suo successo come frutto di volontà o calcolo. "Non posso prendermi il merito. Non l’ho pianificato, non l’ho cercato. È successo. Fortuna, destino, non lo so".
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Cresciuto a Port Talbot, nel Galles del Sud, Hopkins ricorda gli anni della scuola come un tempo duro: "Mi chiamavano testa d’elefante. Gli insegnanti mi picchiavano, i compagni ridevano di me. Mi consideravano stupido. E forse lo ero, ma nel mio modo". Quel senso di esclusione lo spinse a voler dimostrare qualcosa, senza sapere bene cosa.
Il teatro arrivò come possibilità e rifugio, ma anche lì la sensazione era quella di essere fuori posto: "Lo stile britannico era troppo impostato. Io volevo vivere, non reggere una lancia in costume per tutta la vita". La svolta avvenne grazie a Katharine Hepburn, sul set de Il leone d’inverno (1968): "Mi disse: ‘Non recitare, dì solo le battute’. Quel consiglio mi ha cambiato tutto".
Da quell’intuizione nacque la sua arte della sottrazione: silenzio, immobilità, semplicità. Così prese forma Hannibal Lecter ne Il silenzio degli innocenti, un personaggio che ancora oggi inquieta per la sua calma glaciale. "Ho capito che ciò che spaventa davvero è la quiete. Quel sibilo? L’ho improvvisato, copiandolo da Bela Lugosi. Il regista lo tenne".
Dietro il successo, però, si nascondeva un precipizio. Negli anni Settanta l’alcol prese il sopravvento. "Ero perso, diventavo cattivo. Ho fatto soffrire chi mi voleva bene". Il punto di rottura arrivò nel 1975, dopo aver guidato in stato di blackout: "Avrei potuto uccidere qualcuno. Quando mi sono reso conto di quello che stavo facendo, ho capito che era finita. Ho chiesto aiuto. Da allora non ho più toccato un goccio".
Alle riunioni degli Alcolisti Anonimi scoprì qualcosa che non aveva mai provato: appartenenza. "Eravamo tutti fuori posto. E per la prima volta ho pensato: non sono solo".
Nel libro affronta anche la ferita più dolorosa: il rapporto interrotto con la figlia Abigail, nata dal primo matrimonio. "Sono stato un padre terribile. L'ho lasciata quando era piccola. È la mia ferita più grande". Durante le riprese di Re Lear nel 2018, le parole del personaggio che chiede perdono alla figlia lo travolsero: "Ho pianto come non avevo mai pianto in vita mia. Spero sappia che la mia porta è sempre aperta".
Guardando al presente, l’attore osserva con amarezza il clima sociale: "Nessuno può più avere un’opinione diversa. È follia. È odio inutile". Poi si ferma, sorride e dice: "Alla fine siamo solo di passaggio. Tanto vale darsi una calmata".
Accanto alla moglie Stella Arroyave, Hopkins ha trovato una forma di pace quotidiana. Ha perso due pianoforti negli incendi che hanno colpito la sua casa di Los Angeles, ma non si dispera: "Erano solo oggetti. Se ne compro un altro, bene. Se no, va bene lo stesso".