Achille Costacurta e la rinascita: dal buio della droga alla consapevolezza di sé
 
Achille Costacurta, figlio dell’ex calciatore Billy Costacurta e dell’attrice Martina Colombari, è protagonista della nuova puntata del podcast “One More Time” di Luca Casadei. Nel corso dell’intervista, il 21enne ripercorre la sua adolescenza segnata da detenzione, TSO, uso di sostanze, rabbia incontrollata e la diagnosi di ADHD, fino al tentativo di suicidio e alla scelta di ricominciare lontano dal caos di Milano.
L’episodio è disponibile in formato audio su OnePodcast e sulle principali piattaforme streaming, mentre la versione video uscirà su Spotify e YouTube. Durante la conversazione, Achille racconta come sia riuscito a prendere le distanze da un percorso autodistruttivo che sembrava non avere vie d’uscita.
Riguardo all’ADHD, spiega: «In terza media non mi ammettono all’esame per il comportamento, al liceo dopo tre mesi mi cacciano. Nessuno sapeva ancora cosa avessi. La diagnosi arriva lo scorso anno in una clinica in Svizzera dopo aver esagerato con le sostanze. Lì mi dicono: “Tu ti volevi autocurare con la droga”. Il mio cervello non produce abbastanza dopamina». Oggi assume Ritalin e racconta come questo abbia cambiato la sua capacità di concentrazione e il rapporto con i genitori, migliorato dopo un percorso formativo condiviso: «Ora sanno come dirmi un no».
Il racconto tocca poi il tema della droga e dei sette TSO ricevuti: «A 13 anni ho iniziato a fumare. A 18 ho provato la mescalina. Una volta, sotto effetto, ho avuto una colluttazione con la polizia. A Milano mi hanno legato al letto per tre giorni. In Svizzera invece mi hanno detto: “Se vuoi drogarti, puoi andare. Se vuoi una mano, resta”. Lì ho capito cosa conta. Grazie a loro non mi drogo più».
Costacurta ricorda anche il momento più estremo della sua vita: «Spacciavo. In quarantena il fumo era difficile da trovare, ma io riuscivo. Mi hanno arrestato a 15 anni e mezzo. In comunità, una notte, ho preso sette boccettine di metadone per farla finita. Nessun medico sa spiegarsi come io sia ancora vivo».
Il dolore più grande è legato ai genitori: «Mia mamma ha pianto tanto. Mio papà l’ho visto piangere solo quando mi hanno portato via. Quando prendevo il depot chiedevo tutti i giorni l’eutanasia perché non provavo più emozioni».
Il giorno della dimissione dalla clinica rappresenta l’immagine della sua rinascita: «Mio padre viene a prendermi. In cielo c’era un doppio arcobaleno. Lo abbraccio e gli dico: “Hai visto che ce l’abbiamo fatta?”.»
Oggi Achille parla di consapevolezza e di futuro: «Non mi vergogno di nulla. Ho imparato a trasformare i traumi in forza. L’unica cosa che mi dà emozioni simili all’amore sono i ragazzi con la sindrome di Down. Voglio aiutarli. Voglio creare centri con i miei ideali, ippoterapia con i cavalli, day hospital sul mare, un cane per ogni ragazzo. Voglio accogliere anche chi arriva da Paesi dove essere diverso significa rischiare la vita».